giovedì 19 febbraio 2009

Estrazioni in Basilicata: importanti dichiarazioni di un' esperta



Autore: Enzo Palazzo

“Prima ancora che un bacino petrolifero, la Basilicata è un bacino idrico che dà da bere a due regioni”. L’affermazione è di Maria Rita D’Orsogna, [www.csun.edu/~dorsogna/], esperta di inquinamento da idrocarburi, un’abruzzese con un curriculum lungo un chilometro, attualmente docente dell’University Northridge Mathematics Department di Los Angeles, in California. La conversazione con la docente californiana viene dopo le “verità” della Gas Plus italiana, pubblicate il 31 gennaio con l’intervista al direttore del Business Development, Giovanni Baroni, in merito alla trivella del pozzo di metano riattivata di recente a Marconia.

Professoressa D’Orsogna, esiste un pericolo di inquinamento dell’aria e delle falde freatiche più grave per il petrolio e meno per il gas? Questo e’ un mito che le ditte petrolifere amano propagandare. In realta’ i rischi esistono anche per le estrazioni di gas. Un report di Scientific American, dal titolo “Drilling for Natural Gas, Contaminating Water” mostra che negli Stati Uniti, dove i controlli sono di gran lunga piu’ severi e meticolosi che in Italia, si sono registrati circa 1000 casi di contaminazione di sostanze tossiche nei pozzi d’acqua ad uso umano a causa di estrazioni di gas naturale. In vari casi, sono stati trovati benzene, lubrificanti e altri composti chimici nell’acqua teoricamente ‘potabile’. Gas e petrolio hanno la stessa composizione chimica, sono entrambi fatti di molecole di carbonio ed idrogeno. Quelle del gas sono pero’ molecole piu’ corte del petrolio. Di solito nei pozzi di gas naturale le concentrazioni di idrogeno solforato sono piu’ elevate, essendo anche l’idrogeno solforato un gas. Nel petrolio, invece, piu’ spesso si trovano impurita’ sulfuree che solo durante la lavorazione e l’opera di desolforazione (come quella che si fa a Viggiano) diventa idrogeno solforato.

La Gas Plus, la società che estrae a un km. dal centro storico di un paese di nome Marconia, sostiene di estrarre metano puro al 99 per cento con emissioni di solfati uguale a zero, in quanto l’analisi del campione ha trovato concentrazioni minori di 1 ppm. mol! Ma cosa vuol dire “emissioni di solfati uguale a zero”, se nel campione c’e’ una concentrazione vicina ad 1ppm di H2S? Zero e 1ppm sono due cose diverse. L’idrogeno solforato e’ una sostanze che agisce come il cianuro (anche piccole quantita’ possono essere nocive alla salute): non si puo’ ragionare in termini assoluti ma relativamente al fatto che questa sostanza e’ altamente tossica. In Italia nel 2008 ci sono stati 11 morti per inalazione di idrogeno solforato. L’organizzazione mondiale della sanita’ raccomanda un limite di 0.005ppm in aria. In Massacchussetts e’ illegale immettere in atmosfera sostanze con concentrazioni di 0.0006 ppm.

Tecnicamente, come può avvenire l’inquinamento dei bacini idrici durante una perforazione/estrazione? Le sostanze chimiche utilizzate per perforare restano nel terreno e si infiltrano nelle falde acquifere, inquinandole con materiali tossici. Anche perché l’opera di estrazione necessita di molta acqua ad alta pressione, che molto spesso e’ caratterizzata da presenza di idrocarburi, composti organici, metalli, sali e altre sostanze chimiche di lavorazione. La sua elevata salinità puo’, inoltre, cambiare la composizione chimica del terreno, riducendone qualità e fertilità. Senza parlare dei rischi da fanghi e fluidi perforanti che, a causa di incidenti, mal funzionamenti o perdite, possono riversarsi nei terreni attorno ai pozzi. Esempi di contaminazione di laghi, fiumi e terreni non mancano nel resto del mondo, con il conseguente aumento di tumori, aborti spontanei, morie di pesci, malattie respiratorie e alla pelle.

E’ successo anche in Basilicata! Certo! In Basilicata esistono posti dove l’acqua non è più potabile, a causa dell’attività estrattiva, come ad esempio presso le sorgenti ‘Acqua sulfurea’, ‘Acqua la Vecchia’ e ‘Acqua Piano la Cerasa di Calvello’ a Calvello (Pz). In quella localita’ il sindaco vietò il consumo di acqua dai rubinetti. Anche la zona del parco nazionale ‘Acqua dell’Abete’ e’ allo stato attuale sotto sequestro per inquinamento: c’è chi pensa sia dovuto a causa di infiltrazioni di sostanze tossiche dal vicino pozzo estrattivo Cerro Falcone, dell’Eni.

Lei ha anche parlato di sostanze chimiche segrete, radioattive e cancerogene, usate per rendere fluida la crosta terrestre.
Esistono centinaia di sostanze chimiche naturali o artificiali che possono essere usate nei fluidi perforanti. La composizione chimica esatta e’ coperta da segreto industriale, il che rende più difficile sapere con esattezza tutti i rischi possibili. L’utilizzo di materiale radioattivo nei pozzi lucani e’ evidente già dall’audizione del 1998 di Franco Bernabé, al tempo presidente dell’Eni, da parte di Massimo Scalia, presidente della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attivitià illecite ad esso connesse”.

La Gas Plus italiana, in merito al pozzo di metano di Marconia ha dichiarato di usare fluidi a base di acqua che contengono polimeri sintetici e naturali, “tutti a bassissimo impatto ambientale”. Le compagnie petrolifere tendono troppo spesso a minimizzare, specie quando non si tratta delle loro vite o di quelle dei loro cari. Quando le operazioni di perforamento vengono fatte così vicine ai centri abitati, nulla e’ a bassissimo impatto ambientale. Immettere sostanze chimiche non presenti in natura nel terreno come un “polimero sintetico” e’ di per sé impattante. Non sappiamo come reagira’ il terreno, cosa scorre in quella zona, come gli ingredienti segreti reagiranno fra loro e a contatto con la terra. E’ come andare alla cieca. E poi, una volta creato il pozzo, tutte queste sostanze usate per perforare il terreno, immesse a vari chilometri sotto la crosta terrestre, tornano su, come scarti, mescolati ad altre sostanze del sottosuolo, dando origine a miscele pericolose e tossiche. La domanda vera da porsi, piuttosto, e’: ma dove andranno a finire i materiali di scarto?


Non esiste solo un rischio di inquinamento dell’aria e del sottosuolo quando si estrae gas come a Marconia. Esiste anche il rischio di un fenomeno geologico molto noto che va sotto il nome di subsidenza.
“La subsidenza – spiega ancora la professoressa Maria Rita D’Orsogna – è l’abbassamento del terreno a causa delle estrazioni di idrocarburi. Questo fenomeno è qualche volta accompaganto da micro terremoti e dissesti geologici. In Italia, nel 1936, furono aperti i primi pozzi di metano nella Laguna veneta e in quello stesso periodo iniziarono le alluvioni del Polesine, attribuite proprio al fenomeno della subsidenza. Nel 1963 si decise di disattivare i pozzi di metano per proteggere le popolazioni e da allora le alluvioni del Polesine sono solo un ricordo. Di recente c’è stato un processo contro l’Eni in Veneto per tentata alluvione e disastro ambientale perché questo ente ha tentato di costruire un pozzo di idrocarburi in una zona vietata dal decreto Ronchi, redatto proprio per proteggere la Laguna dalla subsidenza”. Il rischio di subsidenza è uno dei tanti motivi per cui le legislazioni di altri Paesi sono molto rigide nei permessi di estrazione nelle vicinanze di aree protette, di centri abitati e della costa. Negli Usa sono vietate le estrazioni petrolifere fino a 160 km. dalla costa pacifica e atlantica. Si può trivellare solo nel mare antistante il Texas, nel Golfo del Messico. “Il Texas – ci informa la D’Orsogna – ha però deciso di non puntare sul turismo marino. La moratoria nei mari Usa vige dai primi anni Ottanta e tutti la rispettano perché nessuno vuole mettere a rischio le proprie industrie turistiche. I grandi laghi americani attorno alle Cascate del Niagara hanno una superficie di circa una volta e mezza l’Adriatico: è assoluto il divieto di trivellare per i pericoli sul ciclo naturale”. In Norvegia le piattaforme sono tutte in mare aperto, ad almeno 50 km. dalla costa e lo Stato norvegese garantisce una pensione dai ricavati del petrolio a tutti i suoi cittadini. “Ma la Norvegia – dice ancora la professoressa dell’University Northridge Mathematics Department di Los Angeles –, è lo Stato più trasparente nell’informazione sui rischi e i danni dell’attività estrattiva. Una differenza enorme rispetto alle leggi blande italiane dove persino i controlli, anche sugli smaltimenti dei pericolosi fanghi residui, sono molto rari e dove le royalties, come dimostra proprio il caso Basilicata, sono fra le più basse al mondo”. Ma se fosse un abitante di Marconia, chissà che farebbe la D’Orsogna? “Semplice, se fossi un abitante di Marconia credererei alle parole del rappresentante della Gas Plus solo nel momento in cui egli stesso decidesse di trasferirsi a 5 metri dal pozzo e accettasse di dar da mangiare e bere a se stesso e alla sua famiglia verdure e acqua provenienti dai terreni e dalle fonti idrighe attigue al pozzo. E poi, mi chiederei: ma cosa ci guadagna Marconia? Non sarebbe piu’ intelligente avviare una massiccia opera di sfruttamento dell’energia solare con pannelli fotovoltaici?”

C’è stato un “ammorbidimento” della Valutazione di impatto ambientale sulle attività petrolifere? La paura è di No Scorie Trisaia che porta ad esempio la costruzione di una rete di piezometri entro i 200 metri dal pozzo estrattivo, nel 1999 ritenuta dal Ministero dell’ambiente un obbligo per il rilascio delle Via. Una rete piezometrica e’ un sistema per determinare i flussi idrici sotterranei al fine di monitorare l’inquinamento delle falde. “In una Regione che fa fatica a monitorare l’aria intorno alle estrazioni – dichiara No Scorie Trisaia – figuriamoci se hanno obbligato la Gas Plus alla rete di piezometri a Marconia, visto che con un artificio linguistico, work over (manutenzione), la Gas Plus riesce a fare una nuova perforazione addirittura con la stessa Via del vecchio pozzo”.

Fonte:Gazzetta del Mezzogiorno, edizione Basilicata, del 18.02.2009

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